Storia

L lëur da paur - Il lavoro nei campi

Per secoli la grande maggioranza dei gardenesi fu attiva nel settore primario; il clima della valle era più adatto all’allevamento del bestiame che alla coltivazione di cereali. Nei comuni di S. Cristina e Selva l’allevamento sembra essere stato un’attività lucrativa, come ci riferisce Vian: “Alcuni buoni pascoli verso Comun e alcuni alpeggi sotto il Sasso Piatto rendono vantaggioso per i membri del comune l’allevamento e il commercio di bestiame, dal quale i proprietari ricavano un buon guadagno annuale.” Il comune di S. Cristina era in possesso di grandi pascoli alpini sul Mont Sëura, su Ciandevaves, Mastlé e Cisles. Ogni estate avveniva l’alpeggio, che nelle Alpi risale a diversi millenni fa. Si spingeva il bestiame verso gli ampi pascoli d’altura, dove ai piedi dei massicci montuosi crescono le erbe migliori: i monti e lo scampanio delle mucche erano un tutt’uno. I diritti di pascolo erano comunque severamente codificati, perché ogni frazione aveva diritto a sfruttare determinate zone. Vi era però anche chi metteva il proprio bestiame nelle stalle altrui, sul lato esposto a nord. Verso il 1860 si portavano ai cosiddetti "Kristinerweiden" (pascoli di S. Cristina), ai piedi del Sassolungo, circa 200 buoi, e inoltre “circa 450 mucche della migliore razza bavarese”, le quali venivano (nel racconto di Vian) “munte nelle malghe poste in quelle zone da una malgara solitamente vecchia, e di regola scortese e diffidente.”

Il maso autosufficiente basava la sua sopravvivenza anche sulla produzione propria di cereali per il pane. Per molti secoli gli abitanti lottarono per strappare al terreno qualche misero raccolto, poiché l’altezza della valle e di conseguenza il breve periodo vegetativo costituivano un grosso svantaggio. Per questo motivo non si potevano coltivare la frutta o la vite, né era possibile ottenere grandi raccolti di frumento o grano saraceno. Anche segale, avena e orzo non arrivavano alla maturazione tutti gli anni. Capitava abbastanza spesso che i covoni dovessero essere messi sul "palancin", l’altana presso il fienile, per giungere a una completa asciugatura. Il raccolto era spesso magro, in alcuni anni andava perso del tutto. Talvolta anche i cappucci, le rape e le patate nel periodo del raccolto dovevano essere tolti dal terreno già innevato. Per questo motivo già nel 1800 circa la metà della richiesta di grano doveva essere coperta da importazioni dai comuni limitrofi (Laion, Castelrotto). Non c’è da stupirsi, dunque, che i gardenesi cercassero di garantirsi la sopravvivenza grazie a una serie di lavori secondari.

Fino al XX secolo inoltrato l’agricoltura costituiva l’attività principale per la maggioranza delle persone. Non esisteva una divisione tra posto di lavoro e abitazione, tra tempo dedicato al lavoro e tempo libero, e il lavoro occupava gran parte della vita di una persona. A tutte le ore c’era da fare qualcosa, la vita era costituita dal lavoro e dalle riparazioni nella casa e nella stalla.

Il ritmo dei giorni e degli anni era basato sulla natura: la primavera si preparavano i campi, si spargeva il letame, si riportava in cima al campo la terra scivolata in basso durante l’anno a forza di spalle. Poi si passava all’aratura, erpicatura, seminatura e alla fine, se il tempo reggeva, giungeva il momento del raccolto. Bisognava inoltre preparare i campi di patate, e gli orti andavano seminati e curati. La mietitura avveniva prima nel fondovalle, e alcune settimane dopo (generalmente poco dopo la sagra di S. Cristina), anche in montagna. Il tempo passato nei pascoli alpini era generalmente un diversivo molto apprezzato dai contadini di montagna, come si può vedere anche in questo canto popolare alpino:

Ce bel che l ie samont, tamesa l instà canche dut flëur y canche l vën sia.
Che bello che è in montagna, in piena estate quando tutto fiorisce e quando si miete.

Già qualche tempo prima della partenza per l’alpeggio la contadina faceva un fagotto con tutte le cose che sarebbero servite: della farina d’orzo, sale, un grosso pezzo di speck, formaggio, strutto, posate. Poi si partiva, e si arrivava nei pascoli di montagna, dove ai piedi dei massicci montuosi l’erba era già alta. All’arrivo, il contadino si metteva a riparare qualche attrezzo e preparava meticolosamente tutto ciò che sarebbe servito nei giorni successivi. I primi giorni erano pieni di lavoro e sfaticanti: dopo una colazione molto nutriente, solitamente composta da pezzi di un impasto cotti nel latte ("papaciuei"), si prendevano la falce, la pietra per affilare e una lama e si partiva alla volta dei ripidi prati di montagna. Ogni falciatore aveva al suo fianco una rastrellatrice, che (per Moroder) “non di rado è o diventa il suo amoruccio”. Alla fine della giornata lavorativa ci si incontrava tutti nelle capanne in cui si cucinava. Lì si faceva musica, si ballava al suono dell’armonica a bocca e si facevano anche degli scherzi. Per divertirsi si proponevano dei giochi, e chi perdeva doveva fare una penitenza. Tra i vari giorni, il venerdì sera era particolarmente allegro. Quando, invece, i campi erano stati falciati, il contadino invitava i suoi lavoratori la domenica al "gusté da mont", un pasto molto ricco. Dopo la messa pomeridiana i falciatori andavano uno per uno, ognuno con la sua rastrellatrice, nell’osteria, “dove il giovane lascia tutti quei soldi duramente guadagnati in una settimana a una cameriera loquace, in cambio di vino o caffè”.

Ci si incontrava poi anche a Ortisei, il lunedì successivo alla sagra di S. Giacomo, al mercato più grande della valle ("marcià de Segra Sacun"). Lì il falciatore regalava alla sua rastrellatrice una pera – un’usanza che è rimasta viva ancora oggi, anche se in forma un po’ diversa. Oggi, infatti, solo una minima parte di quelli che donano o ricevono le pere sono ancora capaci di falciare o rastrellare.

Nel mese di settembre i prati del fondovalle venivano falciati una seconda volta ("sië diguei"). La mietitura e il trasporto dell’erba seccata erano resi molto faticosi a causa dei pendii così ripidi. Infatti bisognava portare nel granaio ("tublà") i grossi fasci di fieno, che talvolta pesavano più di 80 kg, tenendoli sulla testa. D’autunno si seminava la segale invernale e si raccoglievano l’avena, l’orzo, le patate e le rape. In ottobre si sentiva provenire dai granai il battito regolare dei correggiati usati nella trebbiatura. In gruppi di quattro o sei persone si trebbiava con un ritmo il più possibile regolare, battendo i correggiati di legno sulle spighe per far uscire i semi di grano. Dopo di ciò questi ultimi venivano divisi dalla crusca per mezzo di mulini a vento o setacci, e solo in seguito il grano poteva essere macinato per diventare farina ed essere utilizzato per la panificazione. Solitamente il pane veniva fatto due volte l’anno, e le pagnotte fresche venivano messe a seccare in una rastrelliera di legno. In questo modo il pane poteva durare per mesi, ma in cambio era così duro da dover essere fatto a pezzi con un "grambl" (un coltello apposito per tagliare il pane) e ammorbidito nel latte. Anche il lavaggio generale della biancheria avveniva due volte l’anno come la panificazione.

Verso la fine dell’autunno l’anno lavorativo del contadino finiva, ma prima dell’arrivo dell’inverno bisognava accertarsi di avere una provvista adeguata di legna da ardere. Quando poi la neve ricopriva i campi, si aveva l’occasione di riposare un po’, e si rimaneva volentieri nella stube rivestita di tavole di legno, l’unico ambiente riscaldato della casa. Allora si aveva tempo per riparare o migliorare gli attrezzi e per scolpire il legno, in modo da guadagnare qualche soldo per garantirsi la sopravvivenza. Ma anche d’inverno bisognava comunque mungere e prendersi cura tutti i giorni del bestiame. Infine, bisognava andare a prendere il fieno di montagna e portarlo a valle con delle slitte (luesa da corni).

Nell’800 molti uomini si recavano fuori dalla valle per guadagnare qualcosa con una seconda attività e ritornavano a casa solo d’estate, quando il lavoro sui campi necessitava di tutte le braccia possibili. Per questo motivo erano le donne a doversi curare della gestione della casa e dei campi. Fino a buona parte del XX secolo, e in piccola parte ancora oggi, l’agricoltura e l’allevamento si basavano solo sul lavoro umano e animale; ancora oggi, infatti, le macchine non possono essere utilizzate nei campi troppo ripidi. Le famiglie contadine di montagna non sempre venivano premiate per le loro fatiche, e non bisogna stupirsi se gran parte delle loro usanze avevano lo scopo di chiedere l’aiuto di Dio e di ottenere il tempo più adatto per la crescita delle piante e dell’erba.

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