Storia

Tëmps dures - Malattie, allagamenti, frane e incendi

“A peste, fame et bello, libera nos Domine Jesu Christe”, si pregava un tempo in chiesa. Le malattie, le carestie e le guerre, infatti, erano gli avvenimenti più temuti. Per quanto riguarda gli eventi guerreschi, la nostra valle ne rimase risparmiata per lungo tempo, poiché si trovava molto lontana dai principali scenari di guerra. Il 3 novembre 1809, però, le truppe francesi attraversarono tutta la valle e si fermarono addirittura a Ortisei, ma non ci furono scontri armati. Alcuni gardenesi parteciparono alle battaglie al Berg Isel vicino ad Innsbruck, alcuni anche alla campagna di Russia di Napoleone. Gran parte dei 127 gardenesi che combatterono nell’esercito di difesa in Italia settentrionale nel 1848, proveniva dai paesi interni della valle. Tuttavia questi eventi furono ben poca cosa rispetto alle guerre del secolo scorso.

Un numero molto maggiore di morti era dovuto alle malattie. Rimasero nella memoria collettiva solo quelle epidemie che causarono un repentino aumento della mortalità, perché si trattava di un evento fuori dal comune che creava ansia e terrore. Così il ricordo della peste del 1636, chiamata generalmente ‘Gran Moria’, rimase vivo per molto tempo. L’epidemia si diffuse inizialmente nell’accampamento militare situato nel Cantone dei Grigioni – a quell’epoca si combatteva la Guerra dei trent’anni (1618-1648). Sembra che i gardenesi che si trovavano a Glorenza per vendere del bestiame per l’approvvigionamento delle truppe siano stati i responsabili dell’arrivo della peste in valle. I primi casi si registrarono a Stufan, e poi quest’epidemia si diffuse rapidamente. Per evitare contagi, la gente doveva seguire la messa da una collina posta al di sopra della chiesa. Quel luogo ancora oggi porta il nome Col da Mëssa. Si dice che a quell’epoca gli abitanti di Plesdinaz, che erano stati colpiti dalla peste in modo particolare, abbiano minacciato: “Purtëde su pan, scenó unions ju“ (portateci su del pane, altrimenti scendiamo). Sebbene si racconti che la peste abbia quasi estinto la popolazione della valle, da un’analisi dei registri parrocchiali risulta che in tutta la valle morirono 85 persone. Fino al 1820 circa, quando si diffuse la pratica dei vaccini, anche le epidemie di vaiolo mietevano molte vittime tra i bambini.

Anche i disastri naturali creavano grosse difficoltà ai gardenesi. Infatti, la sopravvivenza della società dipendeva dal raccolto dei campi, e il maltempo, la pioggia eccessiva e le gelate potevano mettere in pericolo intere famiglie. L’anno 1816 entrò nelle cronache come ‘anno della carestia’. Cosa che i contemporanei non potevano sapere, e che è stata scoperta solo dai climatologi del XX secolo: il 1816, “l’anno senza estate”, fu causato dall’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, all’altro capo del mondo.

Durante le alluvioni degli anni 1882, 1885 e 1888 molte parti della strada gardenese furono distrutte. Nei mesi di settembre e ottobre 1882 dieci persone persero la vita, tre case (Zink, Mulin da Coi e Fussel), una segheria e due fienili vennero completamente distrutti. I cadaveri delle due persone che si trovavano all’interno della casa di Mulin da Coi furono estratti dalle acque in piena solo nei pressi di Fever a Ortisei. Il torrente distrusse quasi tutti i ponti. Gli abitanti della frazione di Custacia la domenica non poterono andare alla messa nella chiesa della curazia e si radunarono perciò nella cappella di Puciacia. Furono circa 70 le famiglie della curazia di S. Cristina che dovettero abbandonare le loro case. La popolazione pregava per la fine delle piogge, e gli abitanti di Selva portarono un’immagine della Madonna in processione a S. Cristina. Secondo alcune stime i danni ammontarono a 100.000 fiorini. In seguito si organizzò una colletta in tutta la regione, che contribuì alla ricostruzione. L’imperatore in persona, ma anche molti cittadini benestanti di Innsbruck e Merano fecero arrivare degli aiuti alle persone in difficoltà.

Nel 1917 una frana composta da detriti, fango e neve sotterrò completamente due case a Insom. Un nuovo allarme si ebbe nel 1951, quando diversi giorni di pioggia minacciarono di creare nuovi danni. Solo grazie all’impegno dei vigili del fuoco e con l’aiuto dei cittadini si poté evitare una catastrofe enorme. Anche gli incendi richiedevano spesso l’intervento dei pompieri: nel 1910 ci fu un incendio a Palua (Soplajes), nel 1955 bruciò il fienile di Rudolf Senoner (Bucinea), nel 1982 la casa Belsit, nel 1978 e nel 1987 ci furono degli incendi al maso Tlusel.

Il 28 maggio 1907 un fulmine colpì Ulëta. Il contadino Rabanser, che si trovava al primo piano, venne ucciso, la moglie e il figlio, invece, si salvarono, sebbene con molto spavento. Anche le lunghe nevicate hanno creato talvolta caos e terrore. Nell’anno di guerra 1916 e anche nel 1951 fu necessario spingere giù dai tetti le coltri nevose, che avevano raggiunto in alcuni casi i due metri.

Guerre mondiali, fascismo, opzioni

Presso il cimitero di S. Cristina un monumento commemorativo ricorda una delle catastrofi più immani della storia dell’umanità: le guerre del XX secolo. I nomi dei caduti sono stati iscritti con cura in targhe di legno. I caduti e dispersi furono 53 nella prima guerra mondiale, mentre nella seconda ci furono 20 dispersi e 35 caduti.

Secondo alcune persone anziane, la popolazione civile avrebbe sofferto maggiormente durante la Grande Guerra (1914-1918) – nella seconda guerra mondiale si aveva però più paura degli attacchi aerei. Il 28 luglio 1914, esattamente un mese dopo l’uccisione a Sarajevo del successore al trono Francesco Ferdinando, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Tre giorni dopo fu ordinata la mobilitazione generale: tutti gli idonei alle armi fino al 42° anno di età furono richiamati in servizio. Dopo la messa, e dopo aver salutato madri, mogli e figli in lacrime, bisognava partire per la Galizia, sul fronte. Il sistema delle alleanze, che i principali stati europei nella loro fame di conquiste avevano stabilito già alcuni decenni prima, funzionò alla perfezione: nel corso di dieci giorni l’Europa era in fiamme. Per la prima volta nella storia dell’umanità gli stati coinvolti condussero una guerra industrializzata. Tutte le riserve di uomini e di beni furono utilizzate per scopi militari, senza curarsi dei civili. Con la dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria da parte italiana il 24 maggio 1915, le Dolomiti diventarono teatro di guerra – la Val Gardena si ritrovò immediatamente adiacente al fronte. Finché non arrivarono le truppe regolari dal fronte orientale, furono gli Schützen a difendere la propria terra. Spesso nelle lunghe attese sulle cime dei monti le forze della natura erano il nemico principale. I soldati soffrivano per il gelo, la neve, le lavine e la fame. Inoltre, bisognava scavare le montagne per creare delle gallerie chilometriche, lottare per tenere la posizione sulle cime che si occupavano e cercare di conquistarne di nuove. Il Col di Lana fu fatto esplodere nel 1916 dalle truppe italiane con 5 tonnellate di esplosivo, dopo che tutti i tentativi di conquista erano stati vanificati. La guerra estenuante consumava tutte le risorse della monarchia asburgica. Le importazioni di grano dall’Ungheria furono sospese, i beni alimentari diventavano sempre meno e dovettero essere razionati. Le donne facevano la fila per ore davanti ai negozi, per ottenere con la loro tessera annonaria una piccola razione di farina di scarsa qualità, un po’ di burro o di carne. In quegli anni molti gardenesi si recavano nei comuni vicini, che avevano mantenuto un carattere agricolo, per organizzare uno scambio. Se si era fortunati, si potevano scambiare le lenzuola, l’argenteria o altri oggetti di valore con un po’ di farina, burro o uova. Ovviamente bisognava fare tutto ciò di nascosto. Tuttavia i severi controlli delle autorità non furono in grado di mettere fine al mercato nero. Verso la fine della guerra imperversò l’influenza spagnola, che fece molte vittime tra la popolazione sfinita dalla guerra.

Con il trattato di pace di St. Germain del 1919 l’Austria cedette l’Alto Adige all’Italia, una cesura nella storia di questa terra che non si limitava al cambio dal Heller alla lira. Le promesse di autonomia non furono rispettate, soprattutto quando il partito fascista di Benito Mussolini andò al potere nel 1922 e rese l’Alto Adige oggetto di una politica di italianizzazione aggressiva: l’Alto Adige fu riunito con il Trentino in un’unica provincia, il nome “Tirolo” fu vietato, le associazioni tedesche vennero proibite. Tutto il patrimonio della società alpina (tra cui 77 rifugi), anche quello della sezione locale “Gröden” (che dal 1924 si chiamava Società Alpina Gardenesi), venne confiscato e assegnato al Club Alpino Italiano (CAI). L’italiano era dichiarato unica lingua ammessa nell’amministrazione pubblica (1923), poi anche in tribunale (1925) e infine addirittura in ambito privato (1928). Nel 1926 si diede avvio all’italianizzazione dei nomi di famiglia. Mentre gli altoatesini di madrelingua tedesca erano per Tolomei “rimasugli di precedenti invasioni da parte di genti germaniche”, i ladini erano considerati l’elemento latino di questo territorio. Attraverso l’italianizzazione dei ladini sperava di inserire un cuneo italiano nel territorio tedescofono, e così di rendere possibile la “re-italianizzazione dell’Alto Adige”. Una legge del 1927 suddivise le aree ladine in tre province. Già prima la legge Corbino aveva prescritto che nelle valli ladine l’insegnamento dovesse avvenire esclusivamente in lingua italiana, era assolutamente proibito ricorrere all'uso del ladino o del tedesco nell'insegnamento. I maestri dovevano attenersi scrupolosamente ai programmi didattici, per educare dei “bravi italiani”. Per questo scopo era stata fondata, a livello nazionale, anche l’Opera Nazionale Balilla, che raggruppava una serie di associazioni per i bambini delle diverse classi di età. Benché non fosse obbligatorio farne parte, i genitori subivano pressioni da parte dei pubblici ufficiali e dei maestri affinché vi iscrivessero i loro figli. Sulla decisione dei genitori influiva anche il fatto che le famiglie più povere potevano ottenere delle facilitazioni economiche. D’altronde, quale bambino non sognava di poter partecipare a manifestazioni sportive e di ottenere un bel regalo il giorno della ‘befana fascista’? Anche la mensa, che offriva soprattutto la pasta, era molto amata dai bambini, perché di solito a casa non si mangiava così bene. Il sabato pomeriggio (‘sabato fascista’) i balilla e le ‘piccole italiane’ si incontravano per praticare delle attività sportive in comune.

La maestres dijova ai mutons che Chël Bel Die à plu gën i “Balilla” che i autri mutons.

Nel 1926 i sindaci regolarmente eletti furono sostituiti dai cosiddetti podestà, ufficiali nominati dallo stato. Queste persone che provenivano da fuori avevano pieni poteri in ambito comunale, ma solitamente non conoscevano le peculiarità e necessità di un comune di montagna. L’ultimo sindaco eletto di S. Cristina, Angelo Riffeser (da Maciaconi) si dimise già nel 1925. In seguito a ciò il consiglio comunale nominò sindaco Martino Demetz (da Iman), il quale rimase in carica però solo un anno. Nel maggio 1926, infatti, fu sostituito dal podestà di Ortisei. Per esigenze di risparmio e razionalizzazione il regime fascista aveva accorpato tutta la Val Gardena in un’unica amministrazione comunale. Dal 1926, dunque, l’amministrazione locale di S. Cristina era gestita dai podestà o commissari insediati a Ortisei: Gilberto Gaiani (1926-27), Raimondo Buffa (1927-29) e Ludovico Donati (1929-34). Dopo il 1934 i paesi di S. Cristina e Selva furono di nuovo elevati a comuni, sotto la guida di G. Broisie (1934-35), Leone Delago (1935-38), Vincenzo La Porta (1938-39), Arturo Tanesini (1938-40), Emilio Leonardo Comici (1940), Ugo Silvestri (1940), Arturo Tanesini (1940-42), Giovanni Schenk da Dosses (1941-43) e Primo Bidischini (1942-43).

Nel primo dopoguerra ebbero luogo una rapida crescita demografica e un aumento notevole del turismo. Molti turisti italiani alloggiavano in valle, soprattutto in virtù della promozione delle attività invernali da parte del fascismo (per esempio le gare di sci universitarie Littoriali della neve e del ghiaccio del 1935). Inoltre, ci furono le visite di alcuni personaggi importanti, tra cui in particolare il principino Umberto di Savoia, che si trattenne diverse volte in Val Gardena.

Dopo circa 20 anni di politica di assimilazione aggressiva lo scopo dell’italianizzazione forzata dell’Alto Adige non era stato raggiunto. L’immigrazione di italofoni per mezzo dell’industrializzazione e dell’acquisto di masi (“conquista del suolo”) non aveva portato al successo sperato. Per non mettere in pericolo l’asse Roma-Berlino si decise di passare a una soluzione finale, la cosiddetta opzione. Si aprì così uno dei momenti storici più drammatici nella storia di questa provincia. Sebbene i fascisti considerassero i ladini come degli italiani parlanti un particolare dialetto, permisero loro comunque di partecipare alle opzioni – secondo Tolomei ciò fu un “errore madornale di portata storica”. Entro il 31 dicembre 1939 bisognava decidere se si voleva mantenere la cittadinanza italiana, oppure se si voleva ottenere quella tedesca. Sia che la scelta cadesse su una soluzione, sia sull’altra, ciò avrebbe causato un enorme mutamento nello stile di vita tradizionale: nelle aspettative del fascismo coloro che si dichiaravano italiani dovevano anche comportarsi come tali, ossia lasciarsi assimilare completamente. Coloro che optavano per la Germania, invece, dovevano lasciare la loro terra. Ben presto si ebbe una lotta di propaganda con toni assai accesi. I volantini informavano, diffondevano falsità, manipolavano, scatenavano fanatismo e odio. Le voci di una bella valle con grandi fattorie, terreni fertili e addirittura di un monte identico all’amato Sassolungo “là fuori da Hitler”, trovavano un vasto eco tra la popolazione. Dalla propaganda italiana sembrava di capire che i "Dableiber" (coloro che rimanevano qui) avrebbero dovuto trasferirsi a sud del Po. Una delegazione gardenese, che si recò a Bolzano dal prefetto Mastromattei per informarsi sull’attendibilità di queste voci, ottenne una risposta ambigua: “Signori miei, un buon italiano non chiede dove possa restare.” Ma chi mai sarebbe stato disposto a trasferirsi in Sicilia, o addirittura in Libia o Abissinia? I "Dableiber" vennero considerati italiani, "Walsche", traditori – coloro che optavano invece erano visti come dei nazisti e dei nemici della chiesa. Le liti che nascevano da questo dilemma divisero degli interi paesi, le famiglie erano in disaccordo, tutti erano in preda all’ansia. Verso la fine dell’estate del 1939 nacque un’amministrazione parallela raggruppata dalla ADO (Arbeitsgemeinschaft Deutscher Optanten, Comunità di lavoro degli optanti tedeschi). Imitando la struttura del partito nazionalsocialista tedesco, essa divenne la guida degli optanti e organizzò già nell’ottobre del ’39 dei corsi di tedesco per i loro bambini. Molti, soprattutto tra i giovani, si identificavano con gli ideali propagandati dal Völkischer Kampfring Südtirols (VKS, Lega di lotta popolare del Tirolo del Sud), che si ispiravano in maniera evidente al programma di Hitler. Il risultato dell’opzione fu uno shock: ben l’86% degli altoatesini scelse l’emigrazione. Dei 5.621 gardenesi che avevano il diritto di optare, 4.562 (l’81,16%) scelsero la Germania. Con l’84,8% il comune di S. Cristina aveva la percentuale di optanti più alta della valle. Una delle cause possibili potrebbe essere stata soprattutto la dipendenza economica dell’industria del legno dalla Germania. Molte persone comuni si conformavano semplicemente alla decisione presa dai proprietari delle grandi ditte commerciali (per esempio ANRI, SEVI), da cui dipendevano economicamente e a cui attribuivano una capacità maggiore di interpretare correttamente gli eventi politici. Come nel restante Alto Adige, alla fine solo una parte degli optanti emigrò effettivamente; in valle furono 1.141 persone a trasferirsi. Da S. Cristina partirono in 193, per trovare accoglienza tra l’altro nei comuni austriaci di Innsbruck, Lienz, Kitzbühel, Landeck, Linz e Dornbirn, in parte anche in Germania (Monaco, Augusta, Berlino, Stoccarda). La maggior parte di loro partì nel 1940, perché già nel ’41 l’emigrazione si fermò. La guerra, insieme alle strategie di tentennamento degli uffici italiani, impedì un esodo più numeroso.

Per la sopravvivenza non solo culturale, ma anche economica dei gardenesi era di fondamentale importanza che essi venissero insediati tutti in un’unica zona. La Val Gardena, infatti, costituisce un’unica comunità di valle, in cui i tre rami economici principali (settore primario, scultura del legno e turismo) sono strettamente legati. Nella struttura economica valligiana ognuno aveva una sua funzione – già i responsabili delle singole fasi produttive della scultura (scultore, policromatore, indoratore, commerciante) erano strettamente legati. Sarebbe quindi stato necessario che i lavoratori di tutti i settori economici partecipassero all’emigrazione, e che quest’ultima avvenisse in modo da mantenere vicina tutta la popolazione gardenese. Per questo motivo i valligiani iniziarono ben presto a cercare autonomamente una zona in cui trasferirsi in blocco. Nel Reich erano i benvenuti, perché si conosceva il loro potenziale economico. Per lungo tempo si pensò a una colonizzazione gardenese di una parte della valle della Drava, a Est di Lienz (Tirolo orientale). I piani erano pronti, a Lienz sarebbe stato creato un quartiere, e si progettava già la fondazione di un istituto d’arte. All’ultimo minuto, però, questo progetto fu bloccato. Il comitato centrale dell’ADO era infatti contrario all’iniziativa autonoma dei gardenesi, perché esso pretendeva il trasferimento in blocco di tutti gli optanti altoatesini, senza che vi fossero dei trattamenti speciali per alcune valli. Il comportamento autonomo dei gardenesi non rientrava nei piani di questi estremisti.

La seconda guerra mondiale fu per S. Cristina un periodo molto difficile anche se fame e carestia non risultarono così gravose come nella prima; parecchi alimenti furono razionati, molte donne dovettero recarsi in Val d'Isarco, a Laion, Castelrotto, Gudon, Barbiano oppure in Val di Funes o in altre località vicine alla ricerca di farina o di altri beni alimentari, a volte per elemosina, ma ben più spesso scambiando qualche oggetto prezioso o altre cose di valore. Si definiva “hamstern” ed era proibito dalle autorità. Per sfuggire ai controlli venivano percorsi ovviamente i sentieri più defilati nei boschi ed attraverso gli alpeggi. Tutti gli uomini abili erano stati reclutati, i "Dableiber" nell'esercito italiano e gli optanti nella "Wehrmacht". Come tutti i soldati al fronte li attendevano privazioni, miseria, fame, sete, ferite e purtroppo, spesso anche la morte. Per i caduti “eroicamente” in guerra a casa si organizzavano commemorazioni. Numerosissimi soldati furono catturati e finirono in prigionia che in qualche caso durò anche anni dopo la fine della guerra mentre le consorti a casa penavano senza notizie. Le donne dovevano anche prestare servizio di supporto bellico, anche se la Val Gardena nella seconda guerra mondiale era distante dal fronte. Verso la fine della guerra bombardieri americani sorvolarono la valle e la popolazione cercò protezione nei rifugi antiaerei oppure in altri rifugi improvvisati. Allo sbocco della valle verso l'Isarco la difesa contraerea tedesca cercò di abbattere gli aerei, in Val Gardena caddero alcune bombe ma senza creare particolari danni.

Dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943, la Wehrmacht attraversò il Brennero per fermare l’avanzata alleata in Italia. La grande maggioranza dei tirolesi a sud delle Alpi accolse le truppe con grandi feste. Le province di Bolzano, Trento e Belluno vennero riunite nella zona operativa del cosiddetto Alpenvorland (territorio prealpino), a capo della quale c’era Franz Hofer. In ottobre i corsi di lingua per i bambini degli optanti furono convertiti in scuole elementari regolari, che adesso erano aperte anche per i figli di chi aveva deciso di rimanere in Italia. In Val Gardena in alcuni rari casi furono assunti anche maestri che prima avevano lavorato nella scuola italiana, ovviamente dopo che ebbero seguito un corso di rieducazione politica che fu organizzato nell’Hotel Wolkenstein-Grisi. I bambini sudtirolesi vennero mandati a Rufach in Alsazia per imparare il tedesco. Sebbene in teoria gli optanti e i "Dableiber" della zona operativa Alpenvorland fossero sullo stesso piano, gli optanti facevano sfoggio del loro potere su chi aveva deciso di rimanere in Alto Adige. La macchina intimidatoria nazionalsocialista in questa provincia funzionava così bene come nel Reich. L’amministrazione tedesca sostituì i podestà con sindaci commissariali locali, e questi ultimi potevano dire la loro quando si trattava di decidere chi dovesse essere chiamato alle armi. A S. Cristina il commerciante di sculture e fiduciario dell’ADO Anton Riffeser divenne “capo commissariale” nel settembre del ’43, e nel dicembre fu nominato ”sindaco commissariale”. Nel settembre di quell’anno la situazione in paese era estremamente tesa. I "Dableiber" venivano offesi come “porci, cani e traditori”, e solo i codardi e gli infami avrebbero scelto l’Italia. I "Dableiber" congedati dall’esercito italiano (settembre 1943) al loro arrivo venivano subito portati agli uffici militari tedeschi da alcuni delatori. Così questi ultimi erano responsabili che i loro compaesani che avevano scelto l’Italia spesso venivano rimandati al fronte oppure nei lager. Nacque un sistema di clientelismo, amicizie e inimicizie. Il potere era nelle mani di coloro che occupavano le posizioni al vertice. Dopo la liberazione, molti di loro vennero arrestati per collaborazionismo con i tedeschi. In Val Gardena la rabbia e l’odio covati per tanti anni furono alla base di un atto di violenza, l’unico episodio di ‘depurazione selvaggia’ che si conosca in Alto Adige. Il 15 maggio 1945 alcuni partigiani bellunesi arrivarono in valle armati per arrestare alcuni presunti collaboratori. I servizi segreti americani avevano dato il loro permesso a quest’azione. A quanto pare, alcuni informatori gardenesi avevano fornito ai partigiani una lista nera, che conteneva i nomi di 50 gardenesi da arrestare. La maggior parte di loro riuscì a fuggire nei monti, ma alcuni di loro furono presi e portati nel quartier generale della brigata partigiana a Corvara. Due giorni dopo, il 17 maggio, Adolf Senoner-Vastlé (sindaco di Selva), Engelbert Ploner (dl Ploner), Gabriel Riffeser, Josef Pitscheider (Selva) e Kosmas Demetz (Ortisei) furono fucilati sulla via per Belluno – non è chiaro se stessero tentando la fuga, perché le circostanze non furono mai chiarite, così come non fu mai effettuata un’autopsia. Quattro degli uccisi vennero sepolti nel cimitero di S. Cristina. Gli americani cercarono di passare sotto silenzio questo fatto per non rendere evidente la loro complicità. Per molti anni il clima politico gardenese rimase avvelenato da accuse reciproche. Il processo che si aprì nel 1946 contro otto gardenesi colpevoli di aver perseguitato degli italiani tra il 1943 e il 1945 aumentò ancora di più la tensione, e la frattura è visibile ancora oggi. Ovviamente dopo la guerra molti si pentirono di essere stati dalla parte dei nazisti. E’ facile dare giudizi a posteriori, quando si conosce già il corso degli eventi – ma la situazione è diversa nei momenti di disperazione, quando molti si avvicinano al fanatismo perché temono per la propria esistenza.

Nonostante la guerra fosse ormai terminata, per molti soldati i problemi continuarono. Il rientro dal fronte fu tutt'altro che semplice, i militari rientrarono a casa esausti, denutriti e sovente anche fisicamente e psichicamente debilitati. Parecchi furono imprigionati anche dopo la guerra dagli alleati per essere sottoposti a lunghi interrogatori al fine di accertare un eventuale coinvolgimento con il regime nazista. Alcuni furono rinchiusi in centri di denazificazione ove erano alloggiati in condizioni disumane.

Dopo la guerra, dopo vent’anni di dominio fascista e due anni di occupazione nazista, non fu facile ricominciare. In seguito alla capitolazione della Wehrmacht il nostro territorio fu amministrato innanzitutto dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), che nel giugno del 1945 pose a capo del comune di S. Cristina Giovanni Malsiner, sostituito nel 1951 da Antonio Schenk. Con le prime libere elezioni comunali (1952) fu eletto sindaco Josef Skasa, che rimase alla guida dell’amministrazione comunale fino al 1964. Dopo di lui i sindaci di S. Cristina sono stati Vigil Insam (1964-71), Joachina Mussner (1971-74, prima donna sindaco in Alto Adige), Hermann Keim (1974-85), Franz Demetz (1985-95), Bruno Senoner (1995-2010), Eugen Hofer (2010-2015) e Moritz Demetz (dal 2015). Dallo scioglimento della Democrazia Cristiana (1994) in consiglio comunale è rappresentata anche la ‘Lista Ladins’.

Oggi la politica provinciale si trova a dover affrontare nuove sfide, perché il secondo statuto di autonomia si è dimostrato pienamente adeguato: l’Alto Adige è un modello di pacifica convivenza dei popoli in un’Europa unita. Sicuramente la via che ha portato a questa situazione non è stata semplice, perché la nuova Italia repubblicana ha tentennato a lungo prima di mettere in pratica l’accordo di Parigi (1946), la base dell’autonomia altoatesina, e inizialmente ha preferito seguire una linea nazionalistica. Ci sono voluti alcuni decenni, in cui si è potuto assistere all’appello austriaco all’ONU, a proteste e purtroppo anche agli attentati, prima che Roma avanzasse un’offerta complessiva sul ‘pacchetto’ e che questo venisse accettato dall’SVP. Nel 1992, infine, tutte le decisioni del ‘pacchetto’ sono state realizzate, e in seguito a ciò l’Austria ha ritirato ufficialmente il suo reclamo all’ONU. Il secondo statuto di autonomia (1972), che prevede maggiori competenze della provincia, il sistema proporzionale e il bilinguismo negli uffici pubblici, in tribunale e nella polizia, nel complesso ha avuto successo. Anche il sistema scolastico paritario si è dimostrato vincente ed è perfettamente adeguato alle esigenze del gruppo ladino.

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